Viaggio nella grande fiera tedesca “Mary Jane Berlin”. Venticinquemila visitatori in tre giorni ed espositori da tutto il mondo
Rassegna Stampa 22 GIUGNO 2019 – Tonia Mastrobuoni – Fonte:
Rassegna Stampa 22 GIUGNO 2019 – Tonia Mastrobuoni – Fonte:
Rassegna Stampa 05 DICEMBRE 2021 – Tonia Mastrobuoni Fonte:
Rassegna Stampa 26 OTTOBRE 2022 – a cura della redazione Esteri – Fonte:
https://www.repubblica.it/esteri/2022/10/26/news/germania_legalizza_cannabis-371829675/
Rassegna Stampa 26 GENNAIO 2023 di Massimo Basile – Fonte:
https://www.repubblica.it/esteri/2023/01/26/news/new_york_businessman_coffee_shop-385088496/
“Mi sento come un topo nel formaggio”, ha confessato nella sua prima intervista, all’inaugurazione del negozio, al 144 di Bleecker Street. “Sono emozionato – ha aggiunto – all’idea di far parte della storia. Vista la mia esperienza con il genere, mai avrei pensato di trovarmi ad aprire una cosa come questa”. L’ingresso è stretto tra una cartoleria e un ristorante fusion indiano, ma una volta dentro si apre un mondo: il negozio è ampio, su due piani, con scaffali pieni di prodotti, dalla “Bomba” di erba in vendita a sessantuno dollari, ai fiori di marijuana da 73, e sigarette, ma qui suggeriscono di chiamarle “canne elettroniche”, dagli aromi tropicali. E poi infusi alla mimosa, all’arancio o rollate di nome “Blue Dream”. Il tutto circondato da arredi con disegni pop per riprodurre l’ambientazione hipster. Conner, afroamericano, si è messo in posa per i fotografi con la moglie Patricia e il figlio Darius, che ha mostrato le due dita a “vu”, in segno di vittoria. Il negozio è destinato a rappresentare un piccolo momento di svolta nella lotta alla discriminazione razziale e alle gang che controllano il mercato illegale. Altre venti attività apriranno nei prossimi mesi. Centinaia di persone sono in attesa di ricevere la licenza. Le rivendite clandestine sono più di un migliaio e spesso bersaglio delle gang: nel 2022 sono state quasi seicento le rapine negli store, quasi due al giorno. Lo store legale dovrà rappresentare la fine del mercato da sottosuolo e l’uscita di un business che, secondo lo Stato di New York, dovrebbe arrivare a più di quattro miliardi di dollari entro il 2027. “Smacked!” è aperto a clienti che abbiano almeno ventuno anni, l’età minima per cui l’uso personale di cannabis è diventato legale. Apre alle 10 e chiude alle 22. Trent’anni più tardi, Conner può cambiare modo di vedere le cose. I pensieri positivi se li tiene per oggi, ma stavolta gliene avanzeranno anche per domani.
Rassegna Stampa 04 OTTOBRE 2013 TMNews – Fonte:
Roma, 4 ott. (TMNews) – La Johnson Control, azienda leader nel settore della componentistica, ha annunciato di aver messo a punto una nuova tecnologia di stampaggio plastico, che include fibre vegetali nel compostaggio dei pezzi delle automobili. Dalle carote alle patate fino alla cannabis, questi materiali ridurrebbero il peso del 40%, rendendo le auto più resistenti del 30% rispetto alle normali carrozzerie in metallo.
Come riferisce la rivista Green Energy Journal Alcuni pezzi per i costruttori di auto sono già disponibili: nuovi pannelli porta realizzati con la tecnologia di stampaggio ibrido CHyM (Compression Hybrid Molding) che unisce le fibre vegetali alle resine ad alta resistenza. Utilizzando come materiale di base alcuni prodotti vegetali (amido di mais, grano, tapioca, patate) si possono produrre differenti bioplastiche adattabili a diverse parti del veicolo, tagliando le emissioni di CO2.
Le auto del futuro che tagliano le emissioni saranno composte principalmente di bioplastiche, un materiale che sta prendendo piede negli ultimi tempi per far fronte al surriscaldamento ambientale e rispettare gli impegni con l’Europa e con il pianeta di tagliale le emissioni di CO2, sia durante la produzione che nella durata (essendo più leggera consuma meno carburante), ma soprattutto al termine del ciclo di vita.
Si tratta però di una tecnologia non nuova, soprattutto se si parla di automobili. Infatti oltre ad una monoposto con volante in carote e carrozzeria in patate costruita dall’Università di Warwick in Gran Bretagna, la paternità della prima vera auto ecologica appartiene ad Henry Ford. Nel lontano 1941 egli ultimo la Hemp Body Car, un prototipo di automobile realizzato interamente con un materiale plastico ottenuto dalla canapa.
Rassegna Stampa 24 Ottobre 2018 – Fonte:
Guai a fare confusione. C’è la canapa indiana che diventa marijuana, e c’è la canapa industriale, dal bassissimo contenuto stupefacente, di cui dal 2016 in Italia è stata disciplinata la coltivazione. E siccome è straordinaria per bonificare terreni contaminati, e ricercata anche per usi alimentari, tessili, in bioedilizia e nella produzione di farmaci, ecco un boom in ettari coltivati
Canapicoltura, ultima frontiera di un’agricoltura diversa. La canapa è una coltivazione antica che in Italia, specie tra Veneto e Emilia-Romagna, ha una lunga storia, bruscamente interrotta nel dopoguerra quando le convenzioni internazionali hanno messo al bando le piante dagli effetti psicotropi.
Ma guai a fare confusione. Esiste la canapa indiana che diventa marijuana; e poi c’è la canapa industriale, o sativa, dal bassissimo contenuto stupefacente (sotto lo 0,2% di componente attivo) di cui dal 2016 in Italia è stata disciplinata la coltivazione. E siccome è un prodotto eccezionale, straordinaria ad esempio per bonificare terreni contaminati da metalli pesanti, ma ricercata anche per usi alimentari, tessili, in bioedilizia, e anche nella produzione di farmaci, ecco che di mese in mese si registra un boom in ettari coltivati.
Per capire come coltivarla operano istituti di ricerca del ministero dell’Agricoltura cvome il Crea-Ci di Rovigo: «Il nostro impegno è sviluppare conoscenze in campo agroindustriale, e trasferirle», afferma il direttore Nicola Pecchioni. «Abbiamo maturato un rilevante know-how sulle varietà della pianta di cannabis e sulle tecniche agronomiche per i suoi molti usi, ma molto può ancora essere sviluppato – continua Giampaolo Grassi, primo ricercatore della sede di Rovigo – Oltre i pregiudizi va finalmente riconosciuto il valore economico di questa coltura».
Per intendersi: un ettaro coltivato a canapa industriale per estrazione può rendere sei volte un ettaro coltivato a grano. E a lanciarsi sul business c’è una società tricolore, Enecta, che fino a un paio di anni fa operava in Olanda, ma ora ha in Italia Green Valley,azienda agricola pronta a fare da capofila dell’intera filiera. La società è specializzata nell’estrazione dei principi attivi, in particolare del CBD, il cannabidiolo.
«Le potenzialità della pianta di cannabis e dei suoi componenti vanno ben oltre quanto comunemente conosciuto. Per questo, abbiamo investito già 150mila euro in ricerca agronomica e medica, e sui metodi di analisi dei cannabinoidi, in collaborazione con istituti di ricerca e università italiane», racconta Jacopo Paolini, Ceo di Enecta. Il cannabidiolo, non solo non ha effetti psicoattivi, ma sta mostrando rilevanti qualità come ansiolitico, antinfiammatorio, antiossidante. Negli Stati Uniti è stato autorizzato come antiepilettico un farmaco a base di CBD. E in questo campo Enecta ha fatto una donazione all’Università di Genova – ospedale Gaslini.
Rassegna Stampa 10 GENNAIO 2020 – Fonte:
Team italiano scopre due nuovi cannabinoidi, uno è 33 volte più potente del THC
l test sui topi hanno mostrato che il primo, il THCP, grazie a questa sua maggiore attività psicotropa è attivo a dosi più basse. Dell’altro cannabinoide identificato, il CBDP, si sa ancora poco. La scoperta apre a nuove soluzioni per la terapia del dolore, l’epilessia o il trattamento di ansia e depressione.
ROMA – Sono stati isolati e identificati per la prima volta al mondo due nuovi fitocannabinoidi dalla cannabis sativa. Il merito è di un team di ricerca guidato da Giuseppe Cannazza del Dipartimento di Scienze della Vita dell’Università di Modena e Reggio Emilia (Unimore), in collaborazione con il CNR-Nanotec di Lecce, la sezione di Farmacologia dell’Università della Campania e il Dipartimento di Chimica dell’Università La Sapienza di Roma.
I due cannabinoidi appena scoperti, grazie a nuove tecniche di spettrometria di massa, sono il THCP e il CBDP estratti dalla cannabis medicinale FM2 prodotta dall’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze. Lo studio in vivo ha evidenziato che il composto THCP ha un’interazione con i recettori per i cannabinoidi 33 volte superiore rispetto al THC e proprio grazie a questa sua maggiore attività psicotropa nei test in vivo, condotti sui topi da laboratorio, il THCP è attivo a dosi più basse. I meccanismi di azione, invece, del CBDP sono ancora poco conosciuti come quelli del CBD.
La scoperta, pubblicata sulla rivista Scientific Reports, apre nuove strade verso la comprensione dell’efficacia in ambito terapeutico della cannabis, come la terapia del dolore, l’epilessia o il trattamento di ansia e depressione. “La conoscenza della composizione chimica della cannabis – spiega Cannazza – è la base per comprendere gli effetti terapeutici delle diverse varietà già utilizzate come farmaci per patologie quali forme di epilessia grave nei bambini o nel trattamento del dolore neuropatico dei malati di sclerosi multipla e cancro”.
“L’importanza di questa scoperta – aggiungono i ricercatori Cinzia Citti e Pasquale Linciano di Unimore – risiede nel fatto che finora nessuno ha mai cercato il THCP nelle diverse varietà di cannabis. Il prossimo passo sarà quello di ricercare la concentrazione di questi cannabinoidi in altre varietà al fine di scoprire il motivo per il quale alcune varietà con un basso livello di THC hanno proprietà psicotrope estremamente elevate. E una risposta potrebbe essere il THCP. Riguardo al CBD, invece, non sappiamo assolutamente che attività farmacologica potrebbe avere”.
Rassegna Stampa 22 Gennaio 2020 – di GIACOMO TALIGNANI – Fonte:
In tutto il mondo gli impollinatori sono in declino. Ma negli Usa, afferma una ricerca, le piantagioni di cannabis fanno prosperare i preziosi insetti
2020AGGIORNATO 28 SETTEMBRE 2020 ALLE 12:39 2 MINUTI DI LETTURA
IL LUNGO volo delle api? Grazie alla cannabis. Ci voleva la legalizzazione per aiutare uno dei tanti insetti che, a causa della crisi climatica ma soprattutto il larghissimo uso di pesticidi e insetticidi in agricoltura, sta lentamente scomparendo. Negli ultimi cinque anni si stima siano stati persi dieci milioni di alveari al mondo. Dagli States all’Europa, spesso a causa dei prodotti chimici utilizzati nelle coltivazioni, si contano perdite per oltre il 40% di esemplari e anche la produzione di miele, a livello generale, è in costante declino.
18 Novembre 2019
In quello che è stato più volte definito come l’Armageddon degli insetti in corso, ovvero l’enorme perdita di specie fondamentali per il funzionamento degli ecosistemi, da tempo si cercano soluzioni per evitare il declino di miliardi di esemplari. Uno, quasi involontario, ma decisamente efficace, è offerto dalla recente legalizzazione anche a scopo ricreativo in 11 diversi Stati americani: in queste aree con la coltivazione delle piante di marijuana prosperano le popolazioni di api.
di VINCENZO FOTI20 Gennaio 2020
A raccontarlo è una ricerca scientifica della Cornell University che ha pubblicato su Environmental Entomology i risultati di uno studio in cui si evince che le api frequentano sempre di più le alte piantagioni di canapa di diverse aree dove la produzione di cannabis è aumentata grazie alla legalizzazione. Ricche di nutrienti, i pollini di queste piante secondo i ricercatori possono fornire alle api una sorta di sollievo dopo la continua perdita di habitat legata all’uso agricolo e agli insetticidi. In particolare alle api “piace” la canapa sativa, varietà che per i ricercatori della Cornell è stata in grado di aiutare e attirare “16 diverse specie”.
A richiamare le api è il polline delle piantagioni di canapa, ricco e abbondante, che sostituisce per gli insetti la grande carenza floreale che si sta verificando nelle zone agricole soprattutto a fine estate. Un polline, quello della cannabis, che sembra molto apprezzato dalle api.
Inoltre, secondo i biologi, le piante di cannabis potrebbero rivelarsi come preziosa risorsa nutrizionale per le comunità di insetti, tanto che – affermano i ricercatori – “i coltivatori, i gestori del territorio e i responsabili politici dovrebbero considerare il suo valore nel sostenere le comunità di api e tener conto della sua attrattiva per le api nello sviluppo di strategie di gestione degli infestanti”.
Mentre cresce la preoccupazione per il declino soprattutto delle api e degli impollinatori in tutto il mondo si cercano soluzioni per aiutare concretamente questi animali. Anche se senza piantagioni di cannabis, in diverse città si stanno realizzando corridoi ecologici o autostrade verdi (in Italia fra le ultime a Milano) per poter attirare gli insetti. Il vero problema però è legato all’uso di pesticidi e insetticidi.
Per questo, ha annunciato recentemente Slow Food, è necessaria una battaglia per un cambiamento. “Slow Food – scrive l’associazione in una nota – si unisce a una campagna europea per il divieto dei pesticidi, la trasformazione dell’agricoltura, la tutela delle api e la conservazione della natura. L’obiettivo è riuscire a raccogliere un milione di firme entro settembre 2020, di modo che la Commissione e il Parlamento europei siano obbligati a legiferare sul tema della campagna tenendone in considerazione i princìpi”. Per l’associazione è necessario un cambio di rotta in agricoltura mettendo al bando i pesticidi dannosi in modo da evitare “la distruzione di biodiversità che è legata a doppio filo alla crisi delle api”.
Rassegna Stampa 12 MAGGIO 2020 – Marco Cattaneo – Fonte:
Nel mondo ne soffrono ottocento milioni di persone. Ma ancora la scienza non è riuscita a scoprire i meccanismi che le scatenano. Serve lavorare sulle loro basi biologiche e per farlo occorrono nuovi strumenti, sperimentali, d’indagine
Sono passati sette anni, ormai, da quando è andata in stampa l’ultima edizione, la quinta, del “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” redatto dall’American Psychiatric Association. Un’edizione, quest’ultima, che non ha mancato di destare perplessità tra gli specialisti, non sempre concordi sui cambiamenti apportati al predecessore, il DSM-IV. Non tutti, per esempio, hanno accolto di buon grado l’idea di eliminare specifiche voci, come la sindrome di Asperger, per raccoglierle sotto l’unica definizione “disturbi dello spettro autistico”, o di cancellare tutti i sottotipi in cui era suddivisa la schizofrenia: paranoide, disorganizzata, catatonica, indifferenziata e residua. Né ha riscosso unanime consenso l’inserimento di una quindicina di nuove sindromi, dalla sindrome da cessazione dell’uso di cannabis all’hoarding disorder, il disturbo da accumulo, che porta a inzeppare in modo patologico ogni spazio di oggetti per lo più di nessuna utilità.
Ma a ben vedere, il problema più serio delle centinaia di diverse diagnosi psichiatriche possibili è un altro. Da una parte, molte malattie mentali presentano spesso sintomi comuni, dall’altra, chi soffre di una malattia psichiatrica ha una maggiore predisposizione a soffrire anche di altre, come ha dimostrato lo psichiatra danese Oleguer Plana-Ripoll in uno studio pubblicato lo scorso anno su JAMA Psychiatry.
Secondo molti specialisti in realtà le malattie mentali sono assai sfumate, e dunque difficilmente inquadrabili in schemi diagnostici rigidi. D’altra parte, è la stessa esperienza clinica sui pazienti a mostrare che pochi rientrano in una serie ordinata di criteri, e soltanto di rado si riesce a definire in modo univoco il complesso dei sintomi. Così la soluzione progressivamente adottata nel DSM è stata di suddividere i disturbi in sottotipi sempre più specifici. Ma anche così, la classificazione non sembra funzionare adeguatamente.
Il problema, dicevamo, grande come una casa, è che non abbiamo ancora chiarito le basi biologiche delle malattie mentali. Negli ultimi anni sono state accumulate miriadi di informazioni a proposito dei geni coinvolti nell’esordio delle diverse malattie – e spesso si sono trovate decine se non centinaia di geni che contribuiscono a una singola patologia – ma anche dati di neuroimaging, come le risonanze magnetiche funzionali dei pazienti, che offrono uno spaccato dell’attività cerebrale. Così ora, come ha recentemente osservato Michael Marshall sulle pagine di Nature, molti ricercatori stanno rivedendo le teorie su cui è basata la nostra categorizzazione delle malattie mentali. Secondo la visione più radicale, potrebbe addirittura esserci un unico fattore che predispone le persone a un ampio spettro di malattie; sarebbero poi altre cause a determinare quale disturbo sviluppano.
D’altra parte, il National Institute of Mental Health degli Stati Uniti ha iniziato già da una decina d’anni a finanziare in modo massiccio ricerche sulle basi biologiche dei disturbi, con un risultato paradossale, ma solo all’apparenza: la psicopatologia è ancora più complessa di quanto si credesse. Persino disturbi molto distanti, in realtà, possono avere elementi in comune, non solo dal punto di vista diagnostico, ma anche da quello genetico. E proprio dalla genetica bisognerà ripartire per provare a chiarire il quadro sempre più confuso della malattia mentale. Anche se gli studi condotti finora non hanno minimamente districato il bandolo della matassa.
Per la sola schizofrenia, per esempio, sono state trovate migliaia di geni considerati fattori di rischio, molti dei quali sono associati anche al disturbo bipolare, suggerendo che vi possa essere una base biologica comune. Ma studi più recenti, che si sono concentrati sulle varianti genetiche estremamente rare, hanno trovato che alcune mutazioni erano talmente rare da riscontrarsi in un unico paziente.
Davanti a un quadro così intricato, molti psichiatri, psicologi e neuroscienziati hanno provato a elaborare modelli diversi della malattia mentale, ma nessuno risulta particolarmente convincente. Occorrerà investire nuove risorse soprattutto sul fronte sperimentale, prima di poter delineare un quadro più chiaro. Che potrà finalmente offrire nuovi strumenti per la diagnosi e la terapia di malattie che colpiscono, nel mondo, quasi 800 milioni di persone.
Rassegna Stampa 31 LUGLIO 2020 – Fonte:
Si potrebbe pensare che la coltivazione di cannabis light in Italia sia iniziata pochi anni fa. In realtà la storia della canapa industriale nel nostro Paese è lunga e “gloriosa”
Si potrebbe pensare che la coltivazione di cannabis light in Italia sia iniziata pochi anni fa, con la legge 242/2016 che disciplina la filiera della produzione. In realtà la storia della canapa industriale nel nostro Paese è lunga e, in passato, è stata anche molto prestigiosa.
Un secolo fa l’Italia era il secondo produttore al mondo (dopo la Russia) di canapa industriale, con oltre centomila ettari di coltivazione. Dall’utilizzo come mangime per gli animali all’olio combustibile per l’illuminazione, passando per tessuti, corde, sacchi: era molteplice e variegato l’uso che veniva fatto della pianta e dei suoi derivati fino all’arrivo, negli anni Trenta, del proibizionismo, che attraverso una massiccia propaganda ha trasformato una pianta di uso comune in un terribile mostro illegale. La storia è anche buffa, se non avesse in sé diversi elementi tragici e al contempo assurdi.
Nel 1961 la Convenzione Unica sugli stupefacenti vietò la produzione iscrivendo la cannabis tra le sostanze stupefacenti. Questo momento storico portò nella nostra legislatura un cortocircuito interpretativo: la produzione di canapa industriale, di fatto, non fu mai proibita, ma la doppia lettura della legge determinò comunque la persecuzione del possesso da parte delle forze dell’ordine. La demonizzazione della pianta piegò il mercato che girava intorno a questa industria.
Qualificata a livello europeo sia come ”prodotto agricolo« sia come ”pianta industriale«, oggi il Regolamento UE non fa alcuna distinzione normativa tra le parti della pianta. In Italia la legge distingue in base al livello di THC: la coltivazione viene consentita solo se il livello risulta inferiore allo 0,6%. Negli ultimi anni la produzione di cannabis in Italia è aumentata in modo impressionante: siamo passati dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4000 del 2018.
Coldiretti dichiara un crescente numero di aziende coinvolte nel settore, indicando come vero boom la produzione di cannabis light con la coltivazione di piante, fiori e semi a basso contenuto di THC. È sempre l’associazione di rappresentanza degli agricoltori a sottolineare l’incredibile versatilità della pianta che può inserirsi in numerosi settori: cosmetica, tessuti naturali, bio-edilizia, alimentare e molti altri. Un mercato che conta oggi oltre 10mila addetti ai lavori nel settore della cannabis light, 1500 nuove aziende dedite alla trasformazione e commercializzazione, 800 nuove industrie agricole e oltre 700 growshop in tutto lo Stivale. Un fatturato che ha toccato i 150 milioni di euro nel 2018 ed è attualmente in crescita esponenziale su scala europea.
La normativa ancora incompleta rischia però di frenare un mercato così fiorente dando adito a sequestri ai danni delle imprese, talvolta costrette alla chiusura.
Dal Dossier sulla Canapa Industriale elaborato da Federcanapa si evince che, nonostante la legge 242/2016, gli investimenti in Italia sono ancora considerati ad alto rischio a causa dell’ambigua interpretazione della normativa. Una dimensione ombrosa che rende molto difficile fare impresa: da maggio 2019 più di 50 aziende sono state soggette a sequestri e sono stati oltre 100 i sequestri ai danni dei commercianti.
Nel 2018, 115 coltivatori di canapa di 18 Regioni italiane hanno dato vita al progetto CoInFuSo – coltiviamo insieme un futuro sostenibile. Data l’assenza di una normativa precisa, spiega Serena Caserio, la presidente di CoInFuSo, ”ci siamo imposti dei processi di autoregolamentazione per garantire un approccio etico di produzione e tracciabilità del prodotto seguendo regole più ferree di qualsiasi prodotto agricolo comparabile – e continua – Nonostante la nostra continua ricerca di informazioni per il rispetto delle regole, viviamo con la paura che il nostro lavoro possa vanificarsi da un momento all’altro per via di un sequestro preventivo«.
L’interpretazione giudiziaria dipende infatti spesso dal soggetto giudicante. Per accendere un riflettore politico e sociale sul settore, è nata da qualche mese la campagna Meglio Legale: un progetto di iniziativa pubblica per la legalizzazione della cannabis che ha raccolto il sostegno di politici e medici, imprenditori e avvocati, giornalisti e semplici cittadini. Coordinato da Antonella Soldo, Meglio legale vuole portare all’attenzione pubblica i benefici e i vantaggi che comporterebbe la legalizzazione, aprendo un dibattito onesto e responsabile per arrivare a un cambiamento culturale e normativo.